Il rituale del fidanzamento dei giovani siciliani nel passato. E’ ancora così?

Il rituale del fidanzamento dei giovani siciliani nel passato. E’ ancora così?

Nei tristi e beatissimi tempi in cui, nei nostri decrepiti paesini, l’unica angoscia che ci sovrastava era quella di non riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena – questa ora è l’ultima delle nostre preoccupazioni ma ben altre prospettive catastrofiche ci serpeggiano nella mente – raramente il fidanzamento era un fatto strettamente personale tra una ragazza illibata e un giovanotto di più o meno belle speranze.

Paradossalmente anzi le cose erano più agevoli e naturali in campagna: durante le lunghe giornate che si trascorrevano “all’anta” a raccogliere nocciole oppure olive, o nei complessi lavori per “conzare” la vigna, due sguardi potevano incontrarsi più o meno casualmente e in un istante scambiarsi reciproche cocenti promesse; o era possibile incontrare sul sentiero tra i noccioli bassi, come per caso, la fanciulla che alla solita ora andava alla fonte reggendo ben dritto sul capo, con lo stesso portamento delle canefore dell’Eretteo, il “bombolo” di terracotta e indirizzarle qualche rude complimento, sul tipo: “Rusidda, chi ssi sciacquata!”. Poi, se lei ci stava, da cosa poteva nascere cosa.

In paese era piuttosto arduo addivenire a qualcosa di simile. Dopo i dodici anni le ragazze non uscivano di casa mai sole, nemmeno per andare alla “mastra”. E in ogni caso non solo arcigni genitori e truculenti fratelli vegliavano in permanenze sulla loro integrità fisica e morale, ma anche nonni e zii, amici e vicini di casa si ergevano a paladini delle virtù civiche in generale e familiari in specie.

Accadeva così che il fidanzato doveva essere “portato”, cioè intanto adocchiato da una qualche comare impicciona. E questo delle comari impiccione era un genere che in paese abbondava. In seguito accortamente e acconciamente segnalato in presenza di possibili interessate, con sagace e apparentemente disinteressata facondia. La comare, di solito del vicinato, si mostrava seriamente preoccupata per il fatto che Nunziata aveva già quindici anni e bisognava pensarci se si voleva che non restasse zitella dato che c’era qualche bravo giovane in grado di prendere e mantenere moglie. In genere ogni famiglia era afflitta dal pensiero di avere in casa una o più “fadditazzi” da sistemare, in un tempo in cui l’unica prospettiva di sistemare una figlia era quella di accasarla, e più presto ciò avveniva meglio era.

La famiglia di Nunziata – non c’era pericolo che una ragazza si chiamasse Cinzia o Patrizia, ma soltanto Nunziata, Rosa o Carmela o Maria – nicchiava un po’ sostenendo con raffinata diplomazia che era ancora troppo presto per pensare a queste cose ma in realtà ben consapevole che bisognava sbarazzarsi al più presto di quella femmina. Ma frattanto sondava con discrezione il terreno per sapere, così per curiosità, chi poteva essere quel tale giovane, serio e lavoratore come sosteneva la pronuba, se aveva “fatto il soldato”, se aveva della roba al sole o quanta gliene sarebbe toccata se aveva fratelli.

Era tutto un lavorio accorto e sotterraneo affinché la cosa andasse presto a buon fine. L’ultima a saperlo era Nunziata. Che un bel giorno si sentiva esortata a indossare il vestito buono e le scarpe della festa e ad aspettare, seduta nella stanza “’i riciviri” una visita. Lei aveva capito da un pezzo che qualcosa si preparava ma doveva far finta di niente mentre con occhi bassissimi scrutava tra le ciglia l’intruso che se ne stava lì come un babbeo, sotto lo sguardo indagatore dello spietato consesso familiare, osservato da cima a fondo, esaminato e interrogato nei minimi dettagli con discorsi ondivaghi sul tempo e sui raccolti. Senza che lo sospettasse il malcapitato si trovava nella stessa situazione di Cristoforo Colombo che parlava del nuovo mondo tra i dotti di Salamanca. A un tratto, per darsi un contegno da uomo “fatto” secondo quanto gli aveva suggerito l’amico navigato, cavava con bella disinvoltura il pacchetto delle sigarette Nazionali, se ne cacciava una abbondantemente in bocca e tentava di accenderla con un fiammeggiante zolfanello sfregato sotto la scarpa, senza tossire e senza bruciarsi la punta del naso poiché fuori dalle grosse labbra di sigaretta ne sporgeva solo una mezza.

Se era effettivamente di tempra buona e se Nunziata non era male – per la verità l’aveva intravista qualche volta in chiesa o mentre la madre l’accompagnava alla “mastra” – resisteva impavido fino a che l’atmosfera a poco a poco sgelava e compariva l’eterna bottiglia di rosolio all’essenza di manderino insieme con i dolcetti che la promessa sposa – le arrivavano furtivi pizzicotti materni se appena mostrava di non saperne niente – aveva confezionato per caso il giorno prima con le sue mani.

Veniva infine stabilito il giorno della settimana e l’ora in cui sarebbe stato consentito all’ormai promesso sposo di fare visita alla fidanzata e ciò fino alla vigilia del matrimonio. La domenica per la messa o nelle feste grandi era consentito ai due fidanzati di camminare fianco a fianco ma a una certa distanza, in testa a tutta la famiglia schierata.

Se tutto andava per il verso giusto, a lungo rimaneva la gratitudine dei familiari nei confronti della pronuba.

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jacopo85 Administrator
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